Da un articolo di ALESSANDRO BARRICO SU VANITY FAIR. 💗

Da un articolo di Alessandro Baricco su Vanity Fair. 💗

Di tanto in tanto, poi, mi metto ad ascoltare esploratori reduci da terre di cui ignoro tutto – eppure mie, seppur in modo misterioso. Allora li lascio raccontare: sono storie che vengono da così lontano che il sapere coincide con la leggenda, per me; solo molto tempo dopo torno a interrogarmi sul vero e sul falso, una incombenza che, come si sarà notato, diventa inevitabile in alcune situazioni della vita, non rare, ma per lo più fastidiose.
Ascoltare quegli esploratori, invece, è un viaggio.




Quest’uomo, per esempio, sa di bambini prematuri – ma veramente prematuri, mi chiarisce: stanno in una mano. Se sopravvivi, con quella falsa partenza, vuol dire che hai una voglia di vivere sovrumana, chiarisce. E in ogni caso può accadere che poi ti trovi a farlo con lo strascico di persistenti patologie. Deficit d’attenzione, autismo, movimenti fisici imperfetti, organi zoppicanti. Hanno qualcosa nel volto, alle volte. Cosa, esattamente?, chiedo. È difficile rispondere, dice a se stesso. Mi fa vedere delle foto. Bambini di dieci anni, o giù di lì. Hanno uno sguardo, in effetti. Come se un flash avesse interrotto qualcosa. L’ombra di una luce intempestiva.
Ma una luce. Per questo lui li cura – lo fa quando ancora si tengono in una mano. In quel momento sono in terapia intensiva, mi spiega, non riescono a respirare, non riescono a mangiare, non riescono a piangere, sono ogni minuto in pericolo di vita. Puoi immaginare lo stress?, chiede. Un combattimento quotidiano che dura mesi.

Posso immaginare. Di ogni loro dolore riesco a visualizzare con sospetta esattezza quello meno visibile: non hanno bordi, quando invece dovrebbero ancora averli; non hanno grembo, quando invece dovrebbero ancora essere nel grembo, e dunque non hanno bordi che contengano i loro movimenti, così si muovono esageratamente e senza armonia e senza requie, essendo le incognite dello spazio un problema a cui non erano ancora destinati – si trovano invece a doverlo risolvere. Così come respirano un respiro sghembo (gli hanno dato un bellissimo nome, respiro paradosso), si muovono in maniera dissociata. Il rischio è che così ragioneranno, da grandi, se saranno grandi.
Da grandi, mi dice, ad alcuni rimane un istinto incontrollato al combattimento, quindi allo stress, a uno stress invivibile. Usa un’espressione che prendo in mano e subito mi taglio: «Sono gazzelle che ogni mattina partono a razzo, per scappare, ma non c’è nessun leone, dietro a loro, o intorno, nessuno». Incalzati da uno stress che non li molla mai, custodiscono forme di intelligenza esasperata e mal distribuita. Stanno al mondo muovendosi come in presenza di un nemico fantasma. Non si disattivano mai, mi dice. 
Dei rompicoglioni bestiali, riassume, ma brillando di complicità, affetto, o qualcosa che non so. Ciò che, in ogni caso, lo spinge a curarli – lo fa quando ancora li si può tenere in mano.

Li tocca, allora, con le dita. Appena nati, dice – poi sorride perché il verbo è inesatto, e io capisco: non sono ancora nati nemmeno una volta, ma anche nascono in continuazione e alla fine saranno troppe volte nati. Comunque: tutti li toccano, mi dice, e sovente è qualcosa di doloroso. Li toccano, ha calcolato, circa 60 mila volte in quei tre mesi, e spesso è una faccenda inevitabile di cure, flebo, medicine. Così quando io li tocco, dice, il battito del cuore schizza su, e io devo avere pazienza e con le dita farmi conoscere – stimola il sistema nervoso, massaggia il diaframma che è ancora un marchingegno geniale ma incompiuto. Quindici, venti minuti con le dita sul diaframma. Gli faccio capire che sono dita amiche, dice. Ci metto due, tre sedute a farmi accettare, dice.
Altri li curano con la musica, con il calore, con i profumi, col silenzio. C’è chi semplicemente li mette in grembo alla madre. Sono orfani, in qualche modo, mi spiega, sono orfani anche della chimica: le madri scambiano molta chimica con i loro figli, negli ultimi tre mesi di gravidanza: riceviamo messaggi definitivi, chimici, in quei tre mesi, che alla fine sono probabilmente il tempo in cui diventiamo qualcosa – tutto il resto è un epilogo, mi fa capire. 

Poi dice che si chiama cortisolo, l’ormone dello stress – la gazzella che parte a razzo. Lascia perdere per un attimo quei bambini prematuri e mi parla dei viventi tutti – anche di me, per dire. Dice che il cortisolo lo produciamo soprattutto al mattino, memoria lontana ma incancellabile di quando al mattino andavamo a caccia. Se ne produce quasi nulla alla sera – ma non quelli che si svegliano nel cuore della notte come gazzelle impazzite.
Dice che anche umani nati in modo molto normale possono perdere il controllo della produzione di cortisolo, stravolti dallo stress. Dice che, ormai incapaci di regolarlo, i corpi umani hanno solo due sistemi naturali per reagire. O si incartano in un infarto o si incantano nella depressione. Volendo, un terzo trucco è quello degli attacchi di panico: facendo finta di morire ci immaginiamo di distrarre la nostra sorte. Commoventi. 

Poi torna a quei bambini troppe volte nati, e mi dice che non si sarebbe così avanti nello studio delle terapie per i prematuri se John Fitzgerald Kennedy, lui, non avesse avuto un figlio prematuro, l’ultimo suo figlio, nato e morto dopo due giorni, incapace di respirare.
E questo è l’uomo che curava, con le dita, gazzelle impazzite.

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